Simona Bartolena
Qui Già Oltre
Il racconto di Anna Vermi comincia a Milano – nella Brera di Piero Manzoni e Agostino Bonalumi – in via Solferino, in un palazzo tra la sede del “Corriere della Sera” e la storica Enoteca Cotti, e termina in Brianza, a Paderno d’Adda, dove Arturo, suo marito, ha concluso i suoi giorni il 10 ottobre 1988, a sessant’anni. Ancora oggi, quando Anna – donna forte e intelligente, che ha avuto nella vita e nella ricerca artistica del marito un ruolo fondamentale, di moglie, musa, sostegno morale e necessario confronto intellettuale – parla di Arturo, il suo sguardo si illumina e la voce si tinge di una sottile vena di malinconia. Anna ricorda quei giorni come felici, sebbene faticosi e senza certezze; giorni in cui ogni mattina dovevano controllare di avere ancora la linea telefonica (ma questa azienda dei telefoni… è proprio nemica delle relazioni sociali!), in cui dovevano soppesare ogni spesa, salvo poi permettersi lussi inaspettati, spesso esagerati, appena si riusciva a vendere un’opera. Arturo e Anna Vermi arrivano in Brianza nel 1974, prima a Verderio, poi, nel 1985, a Paderno. Conoscono già Giancarlo Bulli e Marco Carnà, così, presa la decisione di lasciare la città, scelgono questa zona per cominciare una nuova vita. Il 1974 è un anno importante per Vermi: si inaugurano sue personali ai Piombi di Venezia e alla Rotonda Besana a Milano. Il suo percorso artistico ha già segnato tappe importanti: è passato da una pittura di matrice informale a un linguaggio di segno diverso, approdando, nel 1961, ai Diari; nello stesso anno, a Milano, ha fondato con Verga, Sordini e poi Ferrari, Luci e La Pietra il Gruppo del Cenobio; ha sperimentato in libertà, cercando possibili evoluzioni del concetto dei Diari, in un crescendo di rigore geometrico, con un segno sempre più minimale e semplificato, realizzando serie straordinarie, come Le storie del mago Sabino, le Presenze, le Marine, i Presagi, le Memorie, le Ellissi, le Piattaforme.
Quando arriva a Verderio, dunque, Vermi è un arti-sta maturo, con una lunga storia alle spalle. Eppu-re l’atmosfera dei nuovi luoghi che lo circondano porta una svolta sensibile nella sua ricerca: una svolta “emozionale”, come la definisce Anna Vermi. In quel periodo, forse complice anche la nuova realtà che lo circonda, l’artista preso il senso della propria ricerca: “Sono felice di aver scoperto che cerco la realtà dell’uomo: dell’uomo in rapporto al tutto che lo circonda”. Ma la consapevolezza non frena la sperimentazione, Vermi prosegue, anzi, con maggior entusiasmo nella scoperta. “Nel 1975 – scrive – ebbi un’intuizione che certamente cambiò la mia vita e il mio lavoro… l’uomo prigioniero della forza di gravità della ignoranza, con la scienza e la cultura mette le ali per proiettarsi nel futuro cosmico, verso un tempo di anni luce, verso la felicità. La felicità quindi è il problema; e questo è il tema del mio futuro lavoro… Ho cominciato a lavorare per la felicità dando per scontato che l’uomo potrà superare gli ostacoli contingenti e che l’obiettivo sarà raggiunto. Nel 1975 feci un giornale dal titolo “L’Azzurro” sul quale pubblicai solo cose belle, avvenimenti felici. Smettiamo di sentirci colpevoli di essere felici, siamo colpevoli di non esserlo!”. Del giornale, interamente stampato in azzurro su carta azzurra, escono due numeri; il secondo, del 1978, verrà distribuito alla Biennale di Venezia. “L’Azzurro” è poesia pura, un gioco lieve e intelligente, pensato per contrastare la visione ‘da bicchiere mezzo vuoto’ dei quotidiani, in antitesi al proliferare delle pagine di cronaca nera sulle testate nazionali; rap- presenta una visione del mondo, quella che Vermi non si stanca di raccontarci anche nelle opere degli stessi anni, ricordandoci in ogni istante che “l’uomo ha il dovere di essere felice”. Ed è seguendo questo principio che, nel 1976, nasce il Manifesto del Disimpegno Sociale: “Dichiaro iniziata l’era del disimpegno; poiché oggi sono diverso da ieri, devo modificare o negare ciò che ho affermato ieri. Senza questa libertà, non c’è evoluzione, progresso, scienza, felicità. Quindi basta impegni con il padre, la madre, i figli, la patria, il dogma, gli ideali, la parola data, ecc. ecc. facciamo soltanto ciò che ci fa felici!” recita una dichiarazione autografa, datata 19 novembre. Di nuovo si torna lì, dunque: la felicità.
La ricerca cominciata con i Diari, con quella apparente semplicità che dissimula la complessità del loro significato, trova una ragione d’essere nella serie delle Sequoie, sorta di tavole dei comandamenti incise nel legno (prima nel fusto di una vera sequoia, poi di qualsiasi altro arbusto), dove gli ori delle Piattaforme e degli Esodi incontrano il segno grafico, inconfondibile, dei Diari, dando vita a oggetti in cui il rigore delle linee si coniuga a una materia viva come il legno e alla seduzione dell’oro (una seduzione intellettuale, sia chiaro, poiché nell’opera di Vermi il metallo prezioso non è mai sinonimo di lusso o apparenza, semmai di assoluto e purezza). Sono forse gli orizzonti della campagna brianzola, i suoi verdi declinati in mille sfumature, a suggerire a Vermi un recupero del colore, assente da anni nella sua produzione. L’artista rielabora così alcuni cicli – quali i Diari – con il colore, dove la policromia non è più sentita come elemento esornativo né di compiacimento estetico, ma come simbolo di vitalità. Ed è ancora la ricerca della felicità a portarlo all’invenzione dell’Annologio, ovvero, per usare le parole di Vanni Scheiwiller, “un misuratore di tempo più umano, più in sintonia con i nostri desideri, in armonia con la natura e che compie il suo giro in un anno come la Terra intorno al Sole nell’avvicendarsi delle sue stagioni”. Un tempo ci si dava appuntamento dopo la mungitura, non contavano minuti e secondi, ma si seguivano i ritmi del giorno e delle stagioni. L’Annologio vuole restituire all’Uomo il suo tempo.
Nascono in Brianza anche le serie dei Colloqui e di Luna-Terra-Sole, colloqui tra Sole, Luna e Terra. Spicchi di luna, sintetizzati in semicerchi dorati, dialogano con elementi che simboleggiano il nostro pianeta – piccoli sassi, conchiglie – dando vita a immagini di rara poesia. Un nuovo pensiero è entrato nella poetica di Vermi: la visione di un cosmo maltrattato dall’uomo, che non sa prendersi cura del proprio pianeta, offendendolo ogni giorno. Complice di questo rovinoso atteggiamento è la tecnologia, che non ha colpa in se stessa ma che può essere pericolosa per l’utilizzo che si può farne. Per sensibilizzare l’opinione pubblica e invitarla a riflettere sul tema, l’artista organizza una sorta di happening, dal titolo Com’era bella la Terra, riproposto in vari comuni del territorio, con esiti diversi. Su un cavalletto è posta una grande opera figurativa, a soggetto paesaggistico, accanto; a disposizione del pubblico, c’è un contenitore con pennarelli colorati; chiunque può scarabocchiare il quadro, coprendolo di segni fino a nascondere il soggetto originario. Sarà risparmiata solo una piccola porzione di tela, coperta preventivamente con una pellicola trasparente che, rimossa al termine dell’happening, ricorderà a tutti com’era in origine il paesaggio: Com’era bella la Terra, appunto. Tutti possono scarabocchiare il quadro, esclusi i bambini, poiché loro dovranno salvare il pianeta. Dei bambini, del resto, Vermi ha quella semplicità istintiva, quella fantasia, quel senso poetico innato, senza sovrastrutture, che emerge in ogni sua opera. Non è difficile immaginare la reazione del pubblico di fronte all’esperimento di Com’era bella la Terra; Anna Vermi racconta di una generale incomprensione dell’opera del marito da parte dei residenti dei Comuni della zona, sfumata talvolta da una qualche curiosità spicciola. Non sorprende neppure sapere che la fatidica frase “lo sapevo fare anche io” riecheggia senza tregua alle esposizioni dell’artista (come meravigliarsene, del resto, se a tutt’oggi è il commento più comune di fronte a un’opera d’arte contemporanea?). Ma per Vermi il rapporto con la gente è importante, anzi, potremmo dire fondamentale, e se al “lo sapevo fare anche io” ama rispondere con un ironico “ma tu lo sai vendere?” che lascerebbe spiazzato chiunque, alla generale incomprensione della gente reagisce con pazienza e umiltà, non salendo in cattedra o osservando dall’alto con sguardo di disprezzo (come farebbero – e fanno – molti altri artisti), ma insegnando, a proprio modo, come avvicinarsi al suo lavoro. Un atteggiamento che nasce, forse, dal suo essere artista autodidatta o, più semplicemente, dalla sua indole ottimista e generosa, che lo fa diventare ben presto uno degli attori protagonisti della bohème artistica della zona, il re delle bevute al bar, delle serate folli tra amici ma anche della promozione culturale sul territorio, del coinvolgimento della gente qualunque nell’universo dell’arte contemporanea.
Molti, fin troppi e non tutti veri, sono gli aneddoti legati al suo personaggio: Anna ne racconta volentieri alcuni, altri se ne sentono in giro, continuamente, quasi fosse impossibile narrare la scena artistica brianzola senza ricordare Arturo Vermi, suo sorriso, il suo rapporto spregiudicato con i beni materiali, la sua generosità con gli amici, la sua disponibilità verso la gente, la sua carica vitale.