Flaminio Gualdoni - 2016

Arturo Vermi Figure in un tempo-spazio

Egli è pittore, e pienamente pittore rimarrà, nel senso del “penser la peinture”, in un stagione in cui l’orizzonte dei riferimenti è sottoposto a disamine radicali e in cui è all’ordine del giorno, scrive Emilio Villa, il passaggio “di grado in grado, dal colore alla luce, dalla luce allo spazio, e dallo spazio ad un probabile umore dell’idea”.

Vermi nasce, come molti, in seno al disagio ultimo dell’ art autre, all’insofferenza verso le retoriche postromantiche dell’esprimere. Occorre ricostruire a partire da un “saut dans le vide”, che è quello che Klein, Azimuth, Zero e compagni vanno variamente delineando.

Vermi prende a ragionare del segno e dello spazio. Il suo riferimento prossimo è quello delle ricerche di La Pietra sul segnare come “minimo sperimentale simbolico”. Quello maggiore, autenticamente fondante, è il corso concettuale che ha condotto Lucio Fontana dai graffiti, sempre più  avvertiti e intensivi in forma d’interrogazione, che trascorrono dagli “inchiostri” alle “carte”, sino ai “tagli”. Segni, sono, in concentrazione ultima: e gesti sospesi al limite zen della demateriazione definitiva, a ridosso dell’infinito.

Il segno ha possibilità di ritrovare la sua qualità di monema di senso, che scandisce lo spazio a schiuderlo verso condizioni infine orfane d’orientamento.

(…)

Titolare Diario l’iterazione regolare, allineata e incolonnata, d’un segno tanto plasticamente schiarito quanto (e proprio perché) ridotto a cellula orfana di qualità convenzionale è per Vermi riportare alla misura esistenziale ciò che altrimenti sarebbe un teorizzare algido: è fare, appunto, concretamente scrutinando, in condizione perfettamente inemotiva riportando la superficie alla misura mentale della pagina, luogo di possibilità di senso contaminate e radianti.

Non s’imprigiona tuttavia, Vermi, nell’equivalenza retorica della pagina, dal momento che il suo è un radicalmente diverso pensare l’immagine: “trovai la pagina bianca, lo spazio ma non per riempirlo, bensì per spogliarlo e lasciarvi un segno orizzontale argenteo in mezzo a un blu, oppure due segni in mezzo a tutto il quadro vuoto e così quella serie la chiamai Paesaggi”. L’ emptiness cui perviene non è mentalizzazione di spazio, è piuttosto distillazione di luogo, ambito di accadimenti cui è intimamente connaturata la ragione dimensionale: ancora, esistenza possibile al mondo, ma d’un mondo in essenza altro.

Quanto conti per lui ancora una volta la lezione di Fontana è evidente. Le sue serie di Venezia e di New york, 1961 e 1962, con quel farsi spazio straniato per trascendimento poetico e luce nell’assunzione dell’oro e dell’argento come sostanza simbolica del colore, lavorano in profondo nel corso riflessivo di Vermi.

Oro e argento dilatano in senso cosmico la proiezione spaziale dell’immagine tanto quanto l’adozione di fogli colorati risolve alla radice la questione della neutralizzazione del far di pittura e della monocromia, qui fisiologia dell’oggetto artistico e non esito, ragione comunque di colore e non arrocco nell’anestetismo del bianco e del nero: anche il nero, in lui, è concezione estrema di colore. (…)

 

Altri capitoli, in seguito, Vermi aggiunge al proprio corso rimuginante e vivo, ansioso di saggezza.

(…) Vermi preferisce prendersi il coraggio di una totale remise en question, di farsi, già professionista della visione, fomentatore di pensieri, divagazioni, fantasie in nome dell’humani nihil che da sempre lo spinge. (…) È uomo libero, che pensa e innesca circostanze le quali producono pensieri, forse consapevolezze.

Il suo talento non è in vendita, perché egli ne fa, prima di tutto, un dono.

Così vive, sino alla fine.